SANTA GIUSTINA
Giavenale autunno 2009
di Ugo Barettoni e Edoardo Ghiotto
Santa Giustina è una piccolissima chiesa un tempo in aperta campagna ed ora quasi inglobata nel tessuto cittadino. Si tratta di un esemplare di architettura sacra assai rilevante sia dal punto di vista storico che artistico, prezioso nella sua semplicità.
Di impianto rettangolare, presenta il tetto a capriate ed una piccola abside rivolta a nord-est, semicircolare. I muri perimetrali, costruiti con mattoni e sassi di torrente tenuti assieme con la malta, ricevono stabilità da quattro robusti contrafforti posti agli angoli dell’edificio. Sulla sommità del muro frontale spicca uno svelto campaniletto a vela entro cui è sospesa una ben proporzionata campanella della fonderia del bassanese Pietro Colbachini. Si accede al semplice interno ad unica aula (m 8,90 x 4,30) e con il pavimento in cotto attraverso una porta contornata in pietra, abbellita da un architrave a cornice sagomata. Un piccolo vano absidale lungo m 1,30 amplia con equilibrio gli spazi e dà respiro all’ambiente raccolto. L’unico altare, in pietra tenera, ospitava un tempo una pala secentesca dedicata alla santa titolare della chiesa. Si direbbe quasi che le dimensioni modeste e la sobrietà delle linee esaltino il fascino discreto dell’edificio.
Peculiarità del nostro oratorio fu quello di essersi mantenuto dal 1581 sino al maggio 2003 edificio privato, trasmesso di famiglia in famiglia: dai Dal Ferro ai Canneti, dai Vanzo ai Beltrame, dai Mistrorigo ai Muttoni. La chiesetta che oggi vediamo è il rifacimento di un preesistente tempietto, presumibilmente anteriore al Mille e poco documentato; per forza di cose dunque, nel cercare di ripercorrerne le vicende, abbiamo dovuto far ricorso anche ad ipotesi che ci auguriamo siano non solo suggestive.
La storia dell’oratorio campestre di Santa Giustina di Giavenale presuppone necessariamente un sia pur fugace riferimento alla santa cui è intitolato. Non che sappiamo tanto su di lei, anzi. Secondo la tradizione, Giustina apparteneva ad illustre famiglia padovana; arrestata forse nel 304 durante la persecuzione di Diocleziano, rifiutò di apostatare e venne perciò condannata a morte. L’iconografia che le è propria fa riferimento a queste scarne, essenziali note biografiche. Le sue illustri origini suggerirono spesso agli artisti la raffigurazione della santa con la corona oppure con il globo e lo scettro, simboli di discendenza addirittura regale. Gli altri elementi iconografici relativi a santa Giustina vergine alludono al martirio: la palma innanzitutto ed il libro tra le mani, simbolo della fede, nonché il pugnale con cui le fu inferto nel petto il colpo mortale.
Alla sua santa la Chiesa padovana dedicò un primo sacello; accanto ad esso, forse a partire dall’VIlI secolo, i monaci Benedettini costruirono nel tempo un grandioso complesso il cui cuore religioso è costituito dalla basilica che prospetta sul Prato della Valle. Al suo interno degno di nota è un piccolo oratorio che sopra il suo altare conserva l’immagine di san Prosdocimo: ai suoi lati corre una scritta in cui il santo è detto episcopus et confessor cioè vescovo e testimone della fede.
E’ di grande importanza che nella basilica di Santa Giustina si conservi antichissima memoria del santo che fu primo vescovo di Padova e dell’intera Venetia centrale, nella cui giurisdizione cadeva anche il Vicentino. Numerosi racconti fantastici corrono sulla sua intransigente opera di distruzione del paganesimo e sull’altrettanto determinato impegno nel diffondere il Cristianesimo: nella nostra zona ricordiamo particolarmente le leggende relative alla distruzione del tempietto dedicato al dio Summano sulla sommità dell’omonimo monte ed alla costruzione della pieve di Pievebelvicino sulle rovine di un precedente tempio dedicato a Diana.
Tutto ciò fa intuire quanto potesse sulla Chiesa vicentina dei primi secoli cristiani quella padovana già strutturata in diocesi ed in grado di proporsi anche nelle nostre zone con il prestigio di suoi due grandi santi: Prosdocimo vescovo e confessore, Giustina vergine e martire.
Il territorio vicentino per circa tre secoli fece parte della diocesi di Padova: tanto è il tempo intercorso tra il primo vescovo padovano vissuto intorno agli inizi del IV sec. e quello vicentino, di nome Oronzio, sul finire del VI secolo. In questo lungo lasso di tempo e nei secoli immediatamente successivi, anche nella zona di Schio la devozione per santa Giustina prese piede e si diffuse al punto che in suo onore vi vennero edificati due luoghi di culto. Di uno si sono perse da tempo le tracce visibili ma della sua esistenza siamo del tutto certi grazie alla testimonianza di documenti tardo-medioevali e ad un toponimo tuttora vivo fra la campagna di Magrè e quella di Ca’ Trenta.
L’altro luogo di culto è la nostra chiesetta, naturalmente nella sua forma più antica, prima dei radicali mutamenti di cui si parlerà più avanti. Per cercare di datarne la fondazione non si può prescindere da una attenta valutazione del toponimo Giavenale. Si ipotizza fondatamente che esso derivi da ad advenales, termine quest’ultimo che si collega con evidenza con il latino àdvena vale a dire forestiero di passaggio, pellegrino.
E’ noto che i fedeli anche in età medioevale si spostavano dalle loro terre d’origine verso città o sedi di luoghi sacri particolarmente venerati con una frequenza ed una fede che le innumerevoli avversità non bastavano a frenare: di necessità lungo i percorsi che segnavano tali spostamenti sorgevano luoghi di accoglienza che offrivano un temporaneo sollievo ai fedeli peregrinanti, agli àdvenae per l’appunto. Ad uno di questi alloggi per stranieri risalirebbe il toponimo Giavenale.
Chi lo avrebbe fondato? La risposta sembra accettabilmente provenire da quanto si legge intorno a sant’Anselmo, discendente ed erede del duca longobardo Wectari, vissuto nel periodo in cui alla dominazione longobarda (cessata nel 774) subentrò quella franca. Divenuto abate di Nonantola nel Modenese, Anselmo fu alla guida di una comunità religiosa dai vastissimi possedimenti, che si estendevano anche nel Vicentino. Essi includevano presumibilmente anche la zona di Giavenale, dove il santo abate avrebbe fatto costruire un alloggio a profitto degli àdvenae.
Ora, se facciamo nostre queste suggestive ipotesi formulate in diversi modi ed epoche dagli studiosi di cose vicentine ed in tempi a noi vicini arricchite ed ordinate dal dott. Gianni Grendene, possiamo spiegare l’origine del toponimo Giavenale ed insieme far risalire la costruzione della primitiva chiesetta di Santa Giustina al tardo VIII secolo o, al massimo, all’inizio del IX, essendo sant’Anselmo morto nell’803.
Per l’erezione del sacello e per la probabile costruzione di altri locali vicini, i monaci si servirono del materiale che la natura offriva nei pressi e, come non di rado accadeva, anche di resti di costruzioni antiche e abbandonate in stato di rovina. Era tra questi una lapide, una pietra di notevoli dimensioni, appartenuta ad un sepolcro di età romana, passato durante i secoli attraverso chissà quante e quali vicissitudini. Recava il nome di Caio Camerio pontifex.
Secondo una disposizione comune agli antichi Romani le steli sepolcrali si ergevano lungo la pubblica via, fuori dell’abitato. Anche Camerio si sarà attenuto ad essa scegliendo per sé e per la moglie Terenzia come luogo di sepoltura o un appezzamento di terra di cui era proprietario oppure uno dei tracciati che delimitavano l’agro centuriato in prossimità di Malo – Giavenale. La primitiva chiesetta di Santa Giustina venne forse eretta proprio qui, accanto all’antico sepolcro o sul sepolcro stesso.
Nei secoli a cavaliere del Mille l’oratorio campestre non solo svolse le sue originarie funzioni ma rappresentò pure un importante punto di incontro per i fedeli del luogo. Poi le ingiurie del tempo si fecero pesantemente sentire e l’edificio, voluto in epoche ormai remote dai monaci nonantolani, collassò su se stesso lasciando soltanto poche tracce di residui murari. Solo nel XVI secolo la famiglia Dal Ferro proprietaria dei terreni prese a cuore la sorte del nostro oratorio facendolo ricostruire ex novo, spinta a ciò anche da un fatto prodigioso riferitoci dal padre Francesco Barbarano de’ Mironi in questi termini:
Santa Giustina della stessa contrada di Giavenale, chiesa dei Ferri, famiglia nobile di Vicenza. Questa chiesa è antichissima, e si stima fosse de’ monaci di san Benedetto. Essendo per le guerre distrutta, un contadino (per quanto si dice per tradizione) cominciò a coltivare il terreno del Cemeterio, e fatti avidi gli eredi nel coltivarlo tutto, cavarono dal campo una gran montagna de sassi, ch’era in mezzo d’esso della chiesa distrutta, ma volendo arare quella parte, i bovi mai volsero entrarvi benché con ogni forza ed industria vi fossero spinti; per il che quei contadini venderono il detto campo a detti Ferri; quali per commodità loro determinarono fabbricarvi una chiesa con titolo di Santa Giustina. Nel cavar de’ fondamenti si trovò nel detto luogo un Crocifisso con 4 chiodi di bronzo d’altezza d’un palmo, una balla di marmo bianco, rotonda e lavorata, un dito police pur di marmo, giudicato da intendente bellissimo, ed altre bellissime cose, che appresso li medesimi si conservano, li quali sopra la porta hanno posta quest’iscrizione.
La lapide di cui parla il Barbarano si trova murata nell’antico palazzo dei Ferro a Giavenale e ricorda in bel latino che nel 1581 Gian Giacomo giureconsulto e Gian Battista Dal Ferro, figli di Sebastiano, provvidero a proprie spese affinché fosse ripristinata un’antica chiesetta diroccata per la veneranda età ( nimia vetustate collapsam ), dedicata a santa Giustina ed eretta sul luogo in cui era stato trovato il sepolcro di Caio Camerio. Nell’occasione, all’interno dell’edificio, sulla sinistra, venne murata verticalmente anche la famosa lapide romana cui sopra abbiamo accennato e che di questo sepolcro faceva parte. L’iscrizione che vi si legge è di notevole importanza epigrafica e figura anche nel monumentale Corpus Inscriptionum Latinarum (voi. V, n. 3129) di Theodor Mommsen.
Queste le parole che vi sono incise:
C(AIUS) CAMERIUS
M(ARCI) F(ILIUS) / IIIIVIR [quattuorvir] I PONTIFEX I SIBI ET / TERENTIAE L(UCII) F(ILIAE),
Caio Camerio, figlio di Marco, quattuorviro e pontefice, (costruì) per sé e per Terenzia figlia di Lucio.
Il nostro reperto lapideo è dunque una stele funeraria fatta approntare da un uomo di spicco nella società vicentina del suo tempo, essendo sia quattuorviro, cioè uno dei quattro magistrati preposti alla guida del municipium romano di Vicenza (tale era il capoluogo dal 49 a.C.), ed essendo anche uno dei membri del collegio religioso dei pontefici. E assai probabile che sulla parte alta della pietra fossero incise originariamente anche altre due lettere non giunte sino a noi: esse forse dicevano, cosi come era consuetudine, D(IS) M(ANIBUS), agli Dei Mani, cioè alle anime dei defunti, o meglio a quelle anime virtuose che gli antichi Romani consideravano geni tutelari delle case.
Con il trascorrere dei secoli la chiesetta di Santa Giustina conobbe diversi passaggi di proprietà e proprio a causa del disinteresse di alcuni proprietari oltre che per le ingiurie del tempo, sofferse un nuovo periodo di decadenza. Forse questa si era accentuata sin dagli inizi del XIX secolo quando per le ben note disposizioni napoleoniche si smise di seppellire in prossimità o all’interno dei luoghi sacri. La salvò dalla incombente rovina l’intervento del sig. Orazio Beltrame sul finire dell’800. Ce ne informa Alessandro Dalla Ca’ che nel 1913 così scriveva: “Anche l’attuale oratorio aveva il suo cimitero, poiché quando nel 1898 il sig. Orazio Beltrame, proprietario del luogo, ristaurò in parte la travatura interna e la parte superiore del fronte esterno, e vi fece costruire agli angoli esterni i quattro piloni di rinforzo, perché minacciava rovina, specialmente intorno al fianco sud-est furono disse- polte parecchie ossa umane. Di fronte al/a chiesetta esisteva pure quarant’anni or sono un piccolo piazzale lastricato chiuso ai lati da mura alte circa due metri, delle quali si può vedere ancora qualche leggerissima traccia’
Anche nella seconda metà dello scorso secolo fu necessario intervenire sull’edificio.
Vi provvide intorno al 1960 Valentina Mistrorigo che, divenuta proprietaria della chiesetta, volle venissero effettuati nuovi restauri e collocata sul piccolo campanile una nuova campana. Gli uni e l’altra furono benedetti da don Dante Traverso il 26 settembre 1965.
Per l’antico e glorioso oratorio e per la preziosa lapide romana in esso custodita manifestò un particolarissimo affetto ed interesse l’ultimo proprietario, l’indimenticato Gian Paolo Muttoni, mancato ai vivi pochi anni or sono, penultimo dei figli del dott. Antonio e della signora Valentina Mistrorigo. Per desiderio dei suoi eredi la chiesetta di Santa Giustina fu ceduta al Comune di Schio il quale con la proprietà (costata la cifra simbolica di un euro) si assunse l’onere della manutenzione e della salvaguardia dell’edificio.
GLI IMPAGABILI TESORI
Giavenale autunno 2009
di Edoardo Ghiotto e Ugo Barettoni
Molte delle testimonianze relative ad epoche lontane sono affidate ad iscrizioni incise su marmo o pietra (la parola lapide ha proprio questo primo significato), fuse nel bronzo, graffite su muro. La consuetudine non è certo venuta meno ai nostri giorni ma si è ristretta e, se tralasciamo le scritte estemporanee sui muri, si è specializzata quasi, nell’ambito funerario o commemorativo sia civile che religioso.
Un tempo invece la funzione affidata alle iscrizioni era ben più vasta: ad esse infatti si assegnava, oltre ai compiti sopra indicati, quello di fornire informazioni e memorie su innumerevoli e disparati eventi e personaggi. Scriveva convincentemente Paolo Zovatto (Antiche iscrizioni cristiane. Firenze 1949, p. 9): “Aspetti della vita privata e pubblica, condizioni sociali, ordinamenti politici ed economici, atti di religione e di culto, qualità della stirpe, bontà di virtù domestiche, amor di patria, disciplina di milizie, rispetto della proprietà, senso vivo di umanità, sono altrettante manifestazioni che emergono scultoriamente dai cippi, dalle stele e dai monumenti, rivivono ai nostri occhi stupiti, con immediatezza di visione ed illusione di contemporaneità. Coll’aiuto delle epigrafi, la storia propriamente detta controlla i dati della tradizione, precisa e fissa la cronologia, colma lacune e corregge eventuali errori di valutazione”. Per molte di queste funzioni, come quotidianamente possiamo constatare, noi facciamo ricorso alla stampa oltre che agli altri numerosi mezzi di comunicazione offertici dalla scienza e dalla tecnica.
Anche le due iscrizioni qui considerate confermano quanto detto e si rivelano di fondamentale importanza per la corretta conoscenza delle vicende collegate all’insigne ed antico edificio sacro di Santa Giustina in Giavenale. Sono entrambe incise nella pietra ed appartengono ad epoche assai lontane fra loro: la più antica risale all’età romana, la seconda è del ‘500 inoltrato. Diverse anche le tecniche adottate per eseguirle. Non è di poco rilievo sapere come esse siano “nate”, come da informi blocchi di minerale, si siano trasformate in due robuste ed insieme eleganti “pietre che parlano”.
Anticamente le lastre di pietra venivano estratte separandole dai blocco originario grazie ad un intelligente sfruttamento della differente coesione del marmo a seconda della “vena”. Con questo termine si indica tuttora la diversa separabilità dei vari strati secondo differenti direzioni. Dapprima si individuava un blocco che avesse una opportuna disposizione degli strati e poi si introducevano dei cunei dì legno nella vena. Questi cunei, dapprima fortemente infissi e poi bagnati, si dilatavano e provocavano il distacco della lastra. La tecnica di estrazione, che pure utilizzava mezzi cosi semplici, si era raffinata nel tempo e gli artefici di allora riuscivano a produrre, con esiti sempre più soddisfacenti, lastre con le dimensioni e lo spessore desiderati. Essi giungevano a questo risultato lavorando con sc
alpello e mazzuolo le lastre estratte.
Gli scalpelli in epoca antica erano di acciaio temperato. La parola acciaio, nel significato che noi oggi le attribuiamo, indica fondamentalmente una lega del ferro con il carbonio. Anticamente il carbonio era presente in quantità più o meno grandi in ogni materiale ferroso. Ciò in relazione al metodo di produzione del ferro. Infatti il minerale dì partenza veniva portato a fusione utilizzando fuochi di carbone ed il carbonio entrava in soluzione solida con il ferro dando una lega difficile da lavorare che doveva essere molte volte riscaldata e martellata prima di ricavarne un ferro relativamente dolce, utile per i successivi impieghi. Proprio questa presenza di quantità relativamente grandi di carbonio conferisce all’acciaio la proprietà di diventare molto duro se bruscamente raffreddato dopo il riscaldamento. Sfruttando questa proprietà venivano prodotti ottimi scalpelli che servivano sia durante la preparazione delle lastre che durante l’incisione su di esse delle lettere, dei numeri e di ogni fregio ed ornamento.
La seconda lapide fu estratta quando, oltre all’antica tecnologia, veniva usata anche quella del taglio mediante “filo”. Secondo questo sistema di estrazione vengono opportunamente posizionate delle carrucole sul blocco di partenza in modo da far percorrere ad un filo metallico il profilo secondo cui la lastra deve essere staccata. Il filo viene posto in movimento dopo averlo cosparso di abrasivo. Poiché viene effettuato un continuo rifornimento di polvere abrasiva, il filo abrade la pietra penetrandovi e staccando la lastra. Questo metodo consente vari evidenti vantaggi ed in particolare permette la lavorazione di marmi compatti.
1. L’epigrafe più antica, quella di Camerio, è attribuibile all’età augustea, tra I sec. a.C. e I dc. E’ incisa negli eleganti e forti caratteri della scrittura “quadrata” (per cui, ad esempio, le lettere larghe come O, P, M entrano esattamente in un quadrato) e dice: C(AIUS) CAMERIUS M(ARCI) F(ILIUS) / IIIIVIR / PONTIFEX / SIBI ET / TERENTIAE L(UCI) F(ILIAE).
Manca forse nella parte sommitale della lapide, quella erasa, la consueta dedicazione D(IS) M(ANIBUS), agli dei Mani, cioè alle anime dei defunti. Tradotto, il testo significa: [Agli dei Mani]. Caio Camerio, figlio di Marco, quadrum viro, pontefice (costruì) per sé e per Terenzia figlia di Lucio.
L’illustre personaggio, le cui proprietà terriere si estende- vano presumibilmente anche nella zona di Giavenale, è ricordato come quadrumviro, essendo uno dei quattro magistrati preposti al governo del municipium vicentino. E inoltre indicato come uno dei pontifices, perché faceva parte di questo collegio religioso, cui spettava la sorveglianza del culto ufficiale e pubblico.
Murata dal 1581 all’interno della chiesetta di Santa Giustina, sulla sinistra, appena varcata la soglia, la lapide di Camerio è di grande pregio: ha richiamato nei secoli, oltre all’interesse degli storici locali anche quella di eminenti epigrafisti italiani e stranieri, primo fra tutti Theodor Mommsen (1817 – 1903) che la riportò nel quinto volume del C.I.L. (Corpus Inscriptionum Latinarum) al numero 3129.
Tra i molti altri autori che hanno trattato di questa preziosa testimonianza di romanità piace ricordare in modo tutto particolare l’umanista scledense Bernardino Trinagio: egli la cita nella sua opera Veteres Vicentinae urbis atque agri inscriptiones pubblicata a Vicenza nel 1577, quindi pochissimi anni prima che la chiesetta venisse ricostruita per volontà dei fratelli Dal Ferro.
2. L’altra lapide ripercorre in rapida quanto efficace sintesi alcune vicende vissute dall’oratorio di SantaGiustina, trasmettendoci la seguente memoria, importante anche se parzialmente inesatta.
D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO
IUSTINAEQUE VIRG(INI) ET
MAR(TYRI) AEDICULAM / MULTA IAM SAECULA DICATAM
ANTIQUITU[S] / NIMIA VETUSTATE COLLAPSAM UBI C(AII)
CAMERII / VI PONT(IFICIS)
INSIGNIS SARCOPHAGUS
QUEM SIBI / ET TERENTIAE
ANTEA EREXERAT REPERTUS
/ FUIT IO(ANNES) IACOBUS IURISC(ONSULTUS) ET
IO(ANNES) BAPT(ISTA) A /
FERRO SEB(ASTIANI) F(ILII) ORATORIUM SIBI ET POSTERIS
/ PROPRIO AERE EFFICIENDUM CURARUNT I MDLXXXI.
IDI(BUS) MalI
A Dio ottimo massimo ed alla vergine e martire Giustina. Gian Giacomo giureconsulto e Gian Battista Dal Ferro, figli di Sebastiano, provvidero a proprie spese che fosse ripristinata come oratorio per sé e per i posteri la chiesetta consacrata già molti secoli prima, crollata in antico per troppa vetustà, là dove era stato trovato l’insigne sarcofago di Caio Camerio sesto pontefice che egli aveva tempo prima eretto per sé e per Terenzia. Il 15 maggio 1581.
Memoria inesatta per quanto riguarda Camerio; questi infatti non era sesto pontefice bensì quadrum viro (e) pontifex, come sopra abbiamo visto. L’errata interpretazione deriva dalla lettura VI (sexti) anziché IIIIVIR (quattuorvir), nell’iscrizione cinquecentesca.
Bibliografia essenziale
Francesco Barbarano De’ Mironi, Historia ecclesiastica della città territorio e diocese di Vicenza Opera postuma, VI, Vicenza 1762, pp. 90-92.
Gaetano Maccà, Storia del territorio vicentino, XI, 1, Caldogno 1814, pp. 194-198.
Alessandro Dalla Ca’, Giavenale di Schio. Frammenti di storia, Schio 1913, pp. 29-36.
giovanni mantese, Storia di Schio, Schio 1955, pp. 22-23, 29-30, 49-50, 61-62, 125-126;
Daniela Danieli, Giavenale e la sua storia, Giavenale 1983, pp. 42-44;
Gian Paolo Muttoni, Antiche chiese della parrocchia. 5. Giustina di Giavenale, «Bollettino del Duomo. S. Pietro. Schio», a. XVI, n. 7, aprile 1993, pp. 16-19.
edoardo ghiotto – gianni grendene, Giavenale. Passa al Comune la chiesetta di Santa Giustina. La storia in due schede, «Schio. Mensile di politica cultura attualità», a. XIX, n. 206, luglio 2003, p. 9.